La fatica
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A cura di Giorgio Fanò |
Il termine muscolo deriva dalla parola latina "musculus" che significa piccolo topo ed effettivamente è un termine appropriato perché il muscolo che si contrae sotto la pelle dà proprio l'idea di un topolino che fugge. Il tessuto muscolare presente negli organismi animali è classificabile in tre categorie: liscio, cardiaco e scheletrico tenendo conto sia delle caratteristiche istologiche (presenza o meno di striature) che funzionali (correlazioni con il sistema nervoso e meccanismi contrattili), del tessuto.
Circa il 40-50% del peso totale dell'uomo (30-40% nella donna) è dovuto alla presenza del muscolo scheletrico, tessuto deputato ad almeno tre fondamentali funzioni:
Movimento: volontario o automatico di parti del corpo e/o dell'intero organismo
Postura: mantenimento della posizione del corpo nello spazio
Produzione di calore: necessario al mantenimento stabile della temperatura corporea
Altre funzioni meno note anche se non di importanza secondaria alle quali il muscolo scheletrico partecipa in posizione prevalente sono: il controllo volontario dello stato di apertura/chiusura dei tratti digestivi e urinari (sfinteri) e la formazione del pavimento e delle pareti addominali e delle cavità pelviche per supportare il peso dei visceri. Nel muscolo scheletrico è possibile riconoscere alcune proprietà tipiche che ne definiscono, di conseguenza, l'ambito funzionale:
eccitabilità: capacità di rispondere con una variazione della distribuzione delle cariche elettriche, a variazioni di energia applicata al muscolo direttamente (stimolazione della membrana) o indirettamente (tramite l'attivazione dei neuroni motori)
contrattilità: capacità di accorciarsi attivamente ed esercitare tensione sull'estremità tendinea
estensibilità. capacità di contrarsi oltre la lunghezza normale di riposo
elasticità: capacità di riprendere la lunghezza iniziale dopo una contrazione
L'insieme dei muscoli scheletrici viene generalmente, indicato con il termine di sistema muscolare intendendosi con questo l'insieme di tutti i muscoli che possono essere controllati volontariamente; è formato da circa 600 elementi ognuno dei quali e connesso al sistema scheletrico con due estremità connettivali detti tendini. Diversi sono stati nel corso degli anni, i modi scelti per denominare i muscoli: in base al numero dei capi di origine (bicipite, tricipite), della direzione delle fibre costituenti (traverso, obliquo), alla loro forma (trapezio, quadrato) ed altro ancora. Ogni muscolo è irrorato da uno o più rami arteriosi che penetrano al di sotto del connettivo di rivestimento dove si divide più volte dando luogo ad una più o meno ricca rete di capillari che hanno il compito di trasportare al muscolo gli anaboliti necessari alla sua funzione (ossigeno, glucosio, ecc..) e drenare i prodotti di rifiuto della sua attività (CO2, Acido lattico, ecc..). Nel muscolo esiste anche un polo nervoso contenente le fibre motorie che, originate nelle corna anteriori del midollo raggiungono con le loro divisioni ogni fibra, e quelle sensitive che partenti dai recettori muscolari e fusali, giungono alle corna posteriori. In realtà i rapporti tra sistema motorio e sistema muscolare sono definiti in maniera particolare dall'esistenza delle unità motrici: una struttura funzionale costituita da un singolo motoneurone, dalle diramazione del suo prolungamento assonale e dalle fibre muscolari sulle quali ogni prolungamento prende contatto. In pratica ogni cellula muscolare (fibra) riceve un solo ramo nervoso ma più fibre lavorano sinergicamente quando sono controllate dallo stesso motoneurone. Nell'uomo una singola unità motrice controlla la contrazione di un numero di fibre che va da 6-30 (nei muscoli estrinseci dell'occhio) a più di 1000 (nei muscoli generatori di forza delle gambe).
2. Anatomia microscopica
L'uso delle tecniche di anatomia microscopica evidenzia come il muscolo scheletrico sia costituito da cellule specializzate contenenti molti nuclei in periferia, chiamate fibre muscolari. Le fibre, la cui membrana prende il nome di sarcolemma, hanno generalmente una forma cilindrica con una lunghezza variabile, nell'uomo, tra 0.1 cm del muscolo stapedio dell'orecchio interno ai circa 30 cm del sartorio: muscolo della parte interna della coscia. Le fibre in realtà non sono una struttura omogenea ma il loro citoplasma (sarcoplasma) contiene pacchetti ben ordinati di piccoli fascetti di materiale proteico avvolti da una struttura membranosa: i fascetti prendono il nome di miofibrille e la struttura che le avvolge forma il reticolo sarcoplasmatico (RS). L'analisi ultrastrutturale al microscopio elettronico mostra che ogni miofibrilla è in realtà costituita da due ordini di filamenti formati da proteine contrattili (chiamate così perché partecipano alla contrazione): i filamenti spessi costituiti essenzialmente da un grossa proteina filamentosa detta miosina e i filamenti sottili formati da almeno tre proteine più piccole: actina tropomiosina e troponina.
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Miofibrille |
Con l'ausilio della microscopia elettronica è stato anche possibile definire la struttura del RS ed evidenziare che esso è costituito da formazioni allargate chiamate cisterne terminali e da una rete anastomizzata di tubuli chiamati tubuli longitudinali. Anche il sarcolemma non presenta un aspetto omogeneo perché in alcuni tratti si approfonda trasversalmente al diametro longitudinale della fibra (tubulo trasverso). Prende il nome di triade, struttura virtuale estremamente importante per la contrazione, l'unione di due cisterne terminali con il tubulo trasverso presente nel mezzo. Eseguendo una sezione longitudinale di una miofibrilla è anche fattibile definire i dettagli della disposizione delle proteine contrattili nei due ordini dei filamenti di cui abbiamo parlato. E' possibile così riconoscere l'esistenza di strutture che si replicano in maniera omogenea lungo tutto il decorso della miofibrilla e, trasversalmente, tra le miofibrille adiacenti. In pratica si riconosce quella che viene definita come l'unità morfo-funzionale del muscolo scheletrico e cioè il sarcomero che viene convenzionalmente definito come la regione miofibrillare compresa tra due bande che appaiono più scure al ME e che prendono il nome di strie Z e dalle quali prendono origine i Filamenti sottili che si continuano nella banda adiacente denominata banda I . Nella zona centrale del sarcomero si evidenzia una banda più scura (banda A) dovuta alla presenza contemporanea anche dei filamenti spessi sui quali è organizzata la miosina. La banda A presenta, nella sua zona centrale una stria più chiara (banda H) corrispondente all'area in cui il filamento sottile non è più presente ed infine al centro un'altra banda scura (banda M) legata alla esistenza di ponti intermiosinici. In pratica ogni sarcomero inizia e termina con una stria Z dalla quale origina la banda chiara I cui segue quella scura A. E' questo alternarsi di bande chiare e scure (strie) ben visibile anche ai bassi ingrandimenti del microscopio ottico, che ha fatto denominare questo particolare tipo di muscolo come "striato". Come abbiamo già detto non tutti i muscoli hanno lo stesso diametro e questo dipende, generalmente, dal numero di fasci di fibre che li costituiscono; quando il muscolo, a causa dell'esercizio fisico, aumenta il suo diametro, ciò non è dovuto all'aumento del numero delle fibre ma solo a quello delle miofibrille delle fibre a minor diametro.
3. Sinapsi neuromuscolare
4. Ciclo eccitazione-contrazione
Da un punto di vista funzionale per capire cioè come la modifica tutto o nulla del potenziale sia in grado di provocare la contrazione è necessario descrivere il meccanismo che ha lo scopo di aumentare la concentrazione mioplasmatica di Ca2+ e che in fisiologia del muscolo prende il nome di accoppiamento elettromeccanico o ciclo eccitazione-contrazione (E-C). Per fare questo dovremo accentuare la nostra attenzione su due canali per il Ca2+: uno voltaggio-dipendente presente sul tubulo trasverso noto anche come recettore per le diidropiridine (DHPR) e l'altro giustapposto al primo ma residente sulle cisterne terminali del RS e noto come recettore per la rianodina di tipo 1 (RYR1). Infine, per comprendere i meccanismi che dopo la contrazione portano al rilasciamento muscolare sarà indispensabile spendere qualche parola sul sistema di pompe metaboliche che, tramite consumo di energia, riposizionano verso il basso il valore della concentrazione di Ca2+ del mioplasma.
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I canali del Ca2+ del RS |
Come abbiamo appena detto il potenziale d'azione che si è formato ai alti della placca motrice si propaga lungo tutta la fibra ed anche nei tubuli trasversi perché queste strutture non sono altro che invaginazioni del sarcolemma.
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5. Miogramma
Tutto quello che è stato fin qui descritto non è altro che l'analisi della serie
di eventi che si verificano quando un singolo potenziale d'azione del nervo motore,
trasmesso dalla sinapsi neuromuscolare, attiva un singolo potenziale d'azione
sulla fibra muscolare e, come conseguenza di ciò una fase di contrazione cui segue
il rilasciamento. Il nome che si dà a questo evento riferito alla componente meccanica
cioè alla generazione della tensione e/o accorciamento è: scossa semplice (twitch)
e rappresenta la minima attività della quale è capace una fibra muscolare.
Viceversa, la massima attività possibile corrisponde ad una frequenza di stimolazione
di ca 100 Hz (frequenza di fusione) prende il nome di tetano fuso o completo (tetanic
contraction).
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Miogramma |
Ovviamente, se la stimolazione avviene "in vivo" tramite nervo le attività che
abbiamo descritte non possono essere riferite alla singola fibra ma ad una unità
motrice perché, come abbiamo detto, il controllo del motoneurone si esercita su
un numero finito di fibre (6-1000 a seconda dei muscoli) ma mai su di una sola.
L'attività del muscolo sottoposta al controllo motorio si svolge di solito attraverso
una modalità detta di reclutamento asincrono di unità motrici differenti in maniera
da "programmare" un aumento della forza cercando di mantenere al muscolo una riserva
di potenza per eventuali necessità. Il sistema neuromuscolare cerca, in poche
parole, di non consumare tutte le sue potenzialità né di mettersi nelle condizioni
di rimanere a corto di energia se una improvvisa necessità lo dovesse richiedere.
Il meccanismo del quale parliamo prevede, in pratica, che l'aumento della necessità
di generazione della forza avvenga alternativamente reclutando unità motrici non
ancora o poco attive (sommazione spaziale) e successivamente aumentando la frequenza
di scarica sulle unità reclutate in precedenza (sommazione temporale). Alla fine
del reclutamento asincrono, il muscolo attivato al massimo si troverà in uno stato
molto vicino al tetano massimale (stato di contrazione sostenuto per frequenze
di scarica elevate) di tutte le unità motrici che lo costituiscono.In questo modo
e se le condizioni di lavoro non sono eccessive, nel muscolo hanno la possibilità
di coesistere unità motrici in riposo, in attività ed in ristoro.
6. Energetica
Abbiamo fin qui visto le modalità che accomunano tutti i muscoli scheletrici nel dare inizio e poi mantenere uno stato di contrazione cui seguirà, prima o poi, il rilasciamento. Ma se le modalità per effettuare questi step sono uguali per tutti i muscoli differenti sono, invece, la capacità di generare forza e la resistenza per attività prolungate. In questo caso le differenze tra muscolo e muscolo ed anche, all'interno dello stesso muscolo, tra fibre diverse possono arrivare ad essere notevoli.
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7. De motu animalium
A questo punto il lettore, sopravvissuto all'angosciosa descrizione dei limiti e delle potenzialità che ha il muscolo nel generare forza, mi permetterà di fare uno sforzo di sintesi di quanto detto ma in chiave storica; citando cioè le parole scritte da quello che, forse, può essere ricordato come il primo fisiologo muscolare ( e non solo) dei tempi moderni: lo scienziato napoletano Alfonso Borelli autore , nel 1680, di un'opera famosa per secoli il "De motu animalium". Scriveva il Borelli: "Per produrre la contrazione muscolare occorrono due cause delle quali una esiste nei muscoli stessi ( proteine contrattili) e l'altra viene dal di fuori ( impulso nervoso). L'impulso al moto non può trasmettersi dal cervello per altra via che per i nervi; in ciò tutti sono d'accordo e lo dicono del resto in modo evidentissimo le esperienze; fu pure rigettata la supposizione che qui si tratti dell'azione di una facoltà incorporea, o di spiri aerei; perciò è necessario di ammettere che una qualche sostanza corporea ( il neurotrasmettitore Ach) si trasmetta dai nervi ai muscoli e che si comunichi una commozione ( potenziale d'azione) la quale possa in un batter d'occhio produrre il rigonfiamento del muscolo ". Tutto questo è giusto e anche oggi non sapremo dirlo meglio. Borrelli ammise che l'incitamento alla contrazione del muscolo fosse dato da un'azione chimica, da una "acredine pungitiva che si diffonde alla estremità del nervo per irritare il muscolo " quale altro modo si può trovare per descrivere meglio la liberazione di Ach e gli effetti sul potenziale del muscolo che essa produce?
8. Fatica
L'ultimo elemento che ci rimane da trattare in questa corsa, non so quanto efficace
e chiara, nella fisiologia della contrazione muscolare, è rappresentato da quella
condizione non sempre ben definita che prende il nome di Fatica: lo stato che
insorge all'inizio come una difficoltà a compiere lavoro e che ben presto si traduce
in un blocco della capacità contrattile del muscolo. Ovviamente, uno studio analitico
del problema della fatica che, è bene ricordare, si verifica sempre ed è dipendente
dall'intensità dello sforzo solo per la determinazione della sua insorgenza, deve
partire da un'analisi per quanto possibile completa, di tutti i "siti" in cui
il processo si può instaurare. E' per questo motivo che piuttosto che parlare
di fatica muscolare, intendendo con questo termine l'incapacità del muscolo di
compiere lavoro, bisognerà parlare di fatica neuromuscolare o, se è più facile
distinguere, di una fatica centrale (del sistema nervoso) e di una periferica
(del muscolo).
Perché un muscolo possa contrarsi deve arrivare ad esso la scarica di potenziali
dal motoneurone spinale (motoneurone a). Questa cellula rappresenta una "via finale
comune" perché su di essa giungono efferenze motorie provenienti sia dai centri
superiori quali corteccia, cervelletto, nuclei della base, nuclei vestibolari,
ecc.. che dai circuiti a feed-back dei riflessi spinali. Tutte le alterazioni
provocate dall'attività prolungata che direttamente o indirettamente possono essere
addebitate a una delle strutture elencate da origine a quella che in fisiologia
si definisce componente centrale della fatica. Da un punto di vista sperimentale
la distinzione tra fatica centrale e periferica è piuttosto agevole perché basta
utilizzare come modalità applicativa la stimolazione diretta del muscolo tramite
elettrodi applicati esternamente sul muscolo per analizzare tempi e modi della
fatica periferica. Viceversa la fatica centrale o meglio la componente neuromuscolare
della fatica, può essere derivata attraverso l'analisi della contrazione volontaria.
La strumentazione necessaria della quale bisogna disporre per analizzare in grosse
linee il fenomeno della fatica non è molto complessa (misuratori di forza muscolare
e di attività elettrica del nervo e del muscolo), mentre un'analisi più accurata
richiede strumentazione e tecniche di misura più raffinate. Un'altra componente
non facilmente definibile in grado di far variare tempi di insorgenza ed intensità
della fatica è da identificare con i processi motivazionali; è noto a tutti, infatti,
quanto la volontà possa agire nel determinare soglia ed effetti della fatica.
Nel corso di lunghi anni uno degli argomenti che più ha sostenuto il dibattito
tra coloro che si occupavano di fatica, è stata la definizione del suo sito primario;
se cioè l'origine del fenomeno potesse essere situata nella componente centrale
(sistema nervoso) o in quella periferica (muscolo). I sostenitori della prima
ipotesi iniziarono con il chiedersi se potessero essere le modalità di insorgenza
e conduzione della scarica di potenziali lungo le vie nervose, il sito primario
per la fatica.
Almeno questo problema sembra ora risolto poiché, esperimenti compiuti stimolando
direttamente le radici nervose, hanno dimostrato che le capacità dei vari tratti
di sostenere scariche di potenziali a frequenze anche alte non varia in funzione
del tempo: in pratica il sistema muscolare mostra segni di cedimento molto prima
che questi si verifichino nel nervo. In realtà le cose non sono proprio così
semplici, perché esiste una progressiva diminuzione della scarica dei motoneuroni
a durante un'attività protratta; poiché questo non è dovuto all'esaurimento delle
risorse per il trasferimento dei potenziali lungo il decorso nervoso, è necessario
pensare a qualche forma di informazione riflessa, con il muscolo che modula al
risparmio l'attività del sistema motore. Una spiegazione per questo fatto può
essere cercata nella relazione che esiste tra velocità di rilasciamento muscolare
e firing (scarica di potenziali) del nervo motore. In condizioni di lavoro strenuo,
il muscolo mostra rallentamenti della velocità di rilasciamento, cui fa seguito
una diminuzione della scarica dei motoneuroni e quindi una diminuzione della forza
prodotta. Il significato funzionale di questo fenomeno è quello di poter ottimizzare
l'attività del muscolo, adeguandola ai livelli di risorse disponibili. Probabilmente
il muscolo riesce ad "informare", in qualche modo, il motoneurone delle sue possibilità
energetiche, forse tramite l'accumulo di ioni H+ (acidità) e di Pi (idrolisi di
ATP), che sarebbero capaci di attivare alcune fibre sensoriali del gruppo III
e IV presenti nel muscolo. Queste, a loro volta, stimolerebbero, per via riflessa,
interneuroni inibitori presenti nel midollo spinale, modulando in senso negativo
la loro scarica. In breve, gli studi fino ad ora condotti sembrano escludere che
la sede o le sedi principali di insorgenza della fatica muscolare possano risiedere
nella componente nervosa del sistema neuromuscolare. Per inciso neanche la giunzione
neuromuscolare sembra essere coinvolta perché gli esperimenti compiuti per validare
la teoria di un sito sinaptico per la fatica, hanno dato risultati negativi.
Avendo negato la validità dell'origine centrale del meccanismo della fatica non
rimane che verificare dove e come questo possa originarsi nel muscolo. Per fare
ciò è necessario analizzare le componenti morfo-funzionali che costituiscono gli
elementi più probabili: sarcolemma, strutture del ciclo E-C, filamenti e substrati
energetici. L'attività prolungata sembra modificare innanzitutto la distribuzione
ionica ai lati della membrana della fibra muscolare poiché ogni potenziale d'azione
coinvolge ingresso di Na+ e fuoriuscita di K+ (con un rapporto di circa 2:1).
Se il ripristino attivo che avviene attraverso sistema di pompe ATP-dipendenti
non è in grado di seguire la velocità di scambio, alla fine ci potrà essere un
accumulo di Na+ all'interno maggiore dell'accumulo di K+ all'esterno; ciò si traduce
in una diminuzione della negatività interna con conseguenze sfavorevoli sull'ampiezza
e la velocità dei successivi potenziali. Tra l'altro un'accentuazione del problema
si ha anche come conseguenza dell'aumento dell'acidità del mezzo che è direttamente
proporzionale al grado di lavoro svolto.
Dati sperimentali molto consistenti sembrano indicare, però, che l'indiziato
maggiore per l'innesco della "crisi" di fatica, sia da ricercare nella regolazione
del meccanismo di controllo del Ca2+. Il prolungarsi dell'attività porta, come
abbiamo visto, ad una sorta di sbilanciamento per cui Ca2+ si accumula nel mioplasma,
sia per una diminuzione del suo rilascio dalle cisterne terminali, che per un
"difetto di velocità" della pompa di ritrasporto dello ione nel RS. In più, cambia
l'affinità della troponina per lo ione, per cui anche il ciclo formazione-rottura
dei ponti risulta modificato in negativo.
Qual è la causa di tutto questo? Lavori recenti eseguiti da diversi laboratori,
hanno indicato nel cambiamento del pH uno dei possibili motivi di alterazione
del meccanismo di accoppiamento. Ovviamente la modifica dei livelli di H+ è la
diretta conseguenza del processo di fermentazione che in mancanza di un adeguato
apporto di O2 porta alla formazione di acido lattico e quindi all'aumento di H+
nel mezzo. Inoltre, dai processi di fosforilazione ossidativa legati alla glicolisi
aerobica, si formano dei composti dell'O2 altamente reattivi, noti con il nome
convenzionale di ROS o più semplicemente, di radicali liberi. Queste sostanze
sono in grado di provocare alterazioni del trasporto ionico sia del Ca2+ che del
Na+/K+ e questo, potrebbe giustificare tutte le alterazioni osservate. D'altronde,
una sindrome piuttosto subdola, che si caratterizza in termini muscolari con una
situazione di quasi impedimento alla contrazione e quindi per questo viene chiamata
CFS o sindrome da fatica cronica, mostra la presenza di danni attribuibili ai
ROS sul sistema di membrane sia interne che esterne, dai quali danni deriva un'alterazione
dei meccanismi di trasporto ionico sia del Ca2+ oltre che del Na+ e K+.
Un altro fattore che è sicuramente associato con lo stato di fatica, è rappresentato
dal disequilibrio che esiste tra la velocità di sintesi e quella di utilizzo del
ATP; ciò non significa che le disponibilità del datore di energia siano esaurite,
perché anche in condizioni di sforzi estremi e prolungati la sua presenza non
scende mai al di sotto del 50% del valore di riposo. Piuttosto, come abbiamo detto
in precedenza, è l'accumulo di fosfato inorganico (Pi) proveniente dall'idrolisi
di ATP che aggiunge al danno provocato molto probabilmente da altri agenti, la
beffa di una radicalizzazione degli eventi negativi.
In conclusione allo stato attuale delle conoscenze possiamo dire con certezza
solo ciò che non è l'iniziatore della fatica muscolare: non è il sistema nervoso
(ma ne subisce le conseguenze e a sua volta interferisce sul meccanismo), non
è la sinapsi, non è neanche la disponibilità di ATP. Allora in fondo a queste
poche pagine forse val la pena citare, con un po' di invidia per le geniali intuizioni
e un velo di tristezza per la nostra incapacità (nonostante i tamburi e le fanfare
della supremazia tecnologica che abbiamo a disposizione) quanto, nel 1891, scriveva
in uno dei suoi libri più citati dal titolo premonitore de "la Fatica" uno dei
più gradi fisiologi di tutti i tempi: Angelo Mosso. "Eccitando il nervo sciatico vediamo che la gamba fa una contrazione. Ripetendosi
la contrazione un grande numero di volte, diventa sempre più piccola. Questa diminuzione
di forza non deve attribuirsi ad un esaurimento del materiale per così dire esplosivo , contenuto nel muscolo, cioè della sostanza atta a contrarsi … la mancanza
di energia nei movimenti di un uomo stanco, dipende dal fatto che il muscolo lavorando produce delle sostanze nocive , le quali gli impediscono poco per volta di contrarsi ". Ed ancora:"…il muscolo non è un organo che obbedisce come uno schiavo agli ordini dei nervi,
perché questi non possono esaurire l'energia del muscolo in una maniera differente
di quella che fa lui stesso, quando lavora senza essere eccitato dalla volontà…..
Il risultato più novo ed interessante di queste ricerche fatte con l'ergografo , è che dobbiamo trasportare alla periferia e nei muscoli certi fenomeni della fatica
che si credevano di origine centrale " Ecco, forse oggi conosciamo con precisione il nome di alcune delle sostanze
nocive che il muscolo produce ed anche sappiamo chiamare correttamente "la sostanza
atta a contrarsi" ma poi, in definitiva, non abbiamo saputo aggiungere molto a
quello che con mezzi economici ristretti ed attrezzature semplici sono stati in
grado di dirci quelli che, nei secoli scorsi, ci hanno preceduto.
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