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HANDICAP E PSICOLOGIA: I DISTURBI COGNITIVI |
a cura di Katia Carlini, Presidente dell’Associazione Psicologia in Movimento |
La maggior parte degli psicologi e degli psichiatri hanno ritenuto opportuno
sostituire il termine di sindromi mentali organiche con quello di demenza e altri disturbi cognitivi per definire i pazienti con un deterioramento cerebrale strutturale. Il cambiamento deriva dalla necessità di andare oltre la separazione mente-corpo
laddove, superando Cartesio, l’uno non si può definire senza l’altro. Di fatto,
in ambito clinico il paziente con un disturbo cognitivo non ha solo dei problemi
neurologici ma anche delle difficoltà affettive e relazionali. Trascurare questo
aspetto significa non prendere in considerazione la persona nella sua interezza
e dunque precluderla da un trattamento che tenga conto del reciproco influenzamento
tra l’ambito cognitivo e l’ambito affettivo.
Fatta tale doverosa premessa l’esperienza clinica e le grandi nosologie suddividono
i disturbi cognitivi in due grandi gruppi:
1) condizioni presenti dalla nascita;
2) danno cerebrale e demenza.
I pazienti che crescono con un disturbo cognitivo presentano una serie di deficit
la cui gravità varia a seconda della severità del disturbo stesso. Così, nel caso
di profondi deficit, si assiste a un ritardo massiccio di tutte le acquisizioni
tipiche delle varie tappe evolutive. Nella fattispecie, vengono colpite le funzioni
autonome primarie (la percezione, la memoria e le abilità motorie) tanto da rendere
questi pazienti completamente dipendenti da un’altra persona o da un’istituzione.
L’autonomia delle condotte della vita quotidiana è parziale, invece, per i soggetti
che presentano deficit cognitivi moderati. In questi casi è possibile l’acquisizione
minima del linguaggio e lo sviluppo di relazioni sociali anche se è ancora indispensabile
un ambiente protetto a causa di un’età mentale che non oltrepassa i 6/7 anni e
un frequente ritardo dello sviluppo psicomotorio.
Infine, è difficile riconoscere immediatamente l’ultimo gruppo di pazienti che
presenta deficit cognitivi dalla nascita. Questi soggetti si caratterizzano per
la comparsa di un linguaggio e per lo sviluppo psicomotorio che non presentano
anomalie grossolane, tanto da non riconoscervi immediatamente i segni del disturbo.
Solo l’inserimento scolastico e l’insuccesso che ne consegue suscitano i sospetti
di un deficit mentale. Da qui la necessità di elaborare degli strumenti idonei
a valutare le funzioni cognitive. In risposta a tale esigenza, nel 1905, venne
elaborata da Alfred Binet la prima scala metrica dell’intelligenza. Numerose critiche
e numerose modifiche vennero fatte a tale scala ma è indubbio che essa possa essere
riconosciuta come l’antenata di tutti i successivi test di valutazione.
Importanti modifiche, apportate al test di Binet, hanno riguardato la possibilità
di creare strumenti in grado di misurare diverse attitudini cognitive e applicabili
alle diverse fasce di età. Così, per esempio, l’assenza di un vero e proprio linguaggio
prima dei 3/4 anni di età ha dato l’avvio all’ideazione, da parte di alcuni studiosi
come Gesell e Lezine, di test preverbali, basati essenzialmente sullo sviluppo
psicomotorio. Essi arrivano a definire un Quoziente di Sviluppo (QS) per bambini che vanno da pochi mesi fino a 5 anni. Mentre tra i test applicabili
a bambini dai 6 ai 12 anni, merita di essere citata la scala WISC che comprende 6 subtest verbali (cultura generale, comprensione, aritmetica,
somiglianze, vocabolario, ripetizione di cifre) e 6 subtest non verbali detti
di performance (completamento figure, riordinamento storie figurate, cubi di Kohs,
riordinamento di figure, codice, labirinti). I risultati ottenuti permettono di
ottenere una valutazione verbale, una di performance e una valutazione globale
e quindi di osservare la presenza di un profilo omogeneo o all’opposto eterogeneo.
Per gli adulti esiste una versione analoga chiamata scala WAIS. L’importanza di tali strumenti diagnostici risiede nella possibilità di individuare
precocemente la presenza di anomalie cognitive e dunque di adottare precise misure
pedagogiche al fine di consentire, per quanto possibile, uno sviluppo armonico
dei nascituri con alterazioni cognitive che secondo le stime vanno dall’1,5% al
5,5% di tutta la popolazione. Il ruolo educativo delle istituzioni preposte (famiglia,
scuola, gruppo dei pari) è, in queste circostanze, particolarmente delicato, dovendo
comunque rivolgersi al soggetto piuttosto che alla sua patologia cognitiva, anche
se occorre non dimenticarne l’esistenza. Si tratta in altre parole di una modalità
educativa che richiede all’operatore attente capacità osservative rispetto alle
predisposizioni del soggetto e una disponibilità creativa che consenta di adattare
le situazioni di apprendimento alle esigenze, potenzialità e difficoltà dei singoli
individui che presentano specifiche anomalie cognitive. Ciò significa che in presenza
di una identica patologia cognitiva ci si può trovare di fronte a soggetti completamente
diversi e non tenerne conto vorrebbe dire non lasciargli sviluppare e coltivare
iniziative e una insita curiosità all’interno di una naturale spinta alla crescita.
Se il danno cerebrale si verifica più avanti nel ciclo evolutivo della vita,
il paziente si presenta deteriorato rispetto a un precedente livello di funzionamento.
Tale condizione è a sua volta raggruppabile in due ampie categorie:
1) lesioni cerebrali acute con improvvisa alterazione del funzionamento;
2) malattie degenerative progressive con declino graduale.
Un danno al tessuto cerebrale, molto spesso influenza drammaticamente la capacità
del paziente di interpretare il significato degli stimoli provenienti dal mondo
esterno. Indicativi e suggestivi sono i casi descritti da Oliver Sacks nel suo
celebre saggio “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”. In questi casi
il trattamento deve tener conto, a maggior ragione, delle conseguenze psicologiche
dell’insulto e dei cambiamenti, da esso derivati, sia per il paziente sia per
la famiglia dello stesso. Nella fattispecie il trattamento deve essere pianificato
valutando:
1) i deficit riportati dal trauma sulla sfera sensoria, motoria e cognitiva;
2) la reazione psicologica del paziente al deficit e le sue capacità di adattamento;
3) la personalità e le capacità del soggetto prima dell’insorgenza del trauma;
4) l’evoluzione temporale delle reazioni psichiche del paziente cerebroleso.
In particolare, in una prima fase, sia il paziente che i suoi familiari sono
incapaci di elaborare quanto è accaduto. Gli effetti più comuni possono essere
descritti come sentimenti di estrema vulnerabilità, di impotenza di fronte al
disagio e depressione. In un secondo momento i pazienti si presentano aggressivi
laddove iniziano a comprendere di aver subito delle perdite. Solo dopo aver espresso
tutta questa rabbia è possibile accedere a una terza fase in cui è necessario
ripristinare un nuovo equilibrio collegando le passate esperienze con le rappresentazioni
attuali al fine di formare una nuova identità. Si tratta, in altri termini, di
elaborare il lutto, in cui emozioni inaccessibili vengono finalmente espresse
liberando il soggetto dal legame con il passato per rendergli possibile l’apertura
a nuove esperienze e a nuove immagini di sé.
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Tra le malattie degenerativa progressive con declino graduale merita di essere
ampiamente trattata la malattia di Alzheimer che colpisce circa il 5% delle persone con più di 60 anni tanto che in Italia
si stimano circa 500mila ammalati. È la forma più comune di demenza senile, uno
stato provocato da una alterazione delle funzioni cerebrali che implica serie
difficoltà per il paziente nel condurre le normali attività quotidiane. Tale patologia
fu descritta per la prima volta nel 1906 da Alois Alzheimer, neuropsichiatra tedesco,
in una donna di 51 anni che presentava perdita della memoria, cambiamento del
carattere, delirio di gelosia, incapacità a provvedere alle cure domestiche. La
malattia di Alzheimer, dunque, è una demenza progressiva che colpisce soprattutto
persone di età avanzata, ma non solo. Ha un decorso progressivo, i cui sintomi
principali sono:
- la perdita della memoria (amnesia);
- alterazioni e cambiamenti di personalità;
- spesso problemi di linguaggio (afasia);
- difficoltà e perdita dell’orientamento spazio-temporale;
- incapacità di riconoscere persone cose e luoghi (agnosia);
- girovagare afinalistico (wandering);
- perdita delle più elementari e quotidiane abilità (mangiare, lavarsi, vestirsi,
ecc).
Ma ciò che contraddistingue maggiormente i pazienti affetti da alzheimer è “il
passato che sembra ergersi con la vivezza del presente, mentre il presente si
dilegua nell’oscurità di una distanza infinita” (De Quincey, 1983). Ecco allora
che a farne le spese è anche il contesto familiare del malato, che come quest’ultimo
viene relegato nell’oblio più assoluto e oscuro. Le persone care sono presto dimenticate
dal malato, tanto da vivere una sofferenza pari e forse più consapevole della
persona affetta da alzheimer. Per questa patologia fino ad oggi non è stata individuata
alcuna cura. Il trattamento, per tanto, consiste essenzialmente nell’ambizioso
e filosofico concetto di risignificazione della condizione di vita del malato
e dunque nella promozione di una migliore qualità della vita sia del paziente
affetto da alzheimer sia della famiglia dello stesso.
Bibliografia:
- AAVV, DSM IV. Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Masson 1999;
- G. Gabbare, Psichiatria psicodinamica. Raffaello Cortina Editore 1995;
- D. Marcelli, Psicopatologia del bambino e dell’adolescente. Masson 1997;
- G. Sabbadini, Manuale di neuropsicologia dell’età evolutiva, Feltrinelli, 1995.
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L'evoluzione della specie umana ha comportato modificazioni anche a livello psicologico. Che cosa è la Psicologia dell'Evoluzione?
L'emozione:il cuore che pulsa, le mani sudate, il respiro affannato, il tremore degli arti che accompagna sensazioni paura.
Ottimismo e pessimismo possono influire sulla salute, sul successo in ambito lavorativo, e nella vita in genere, e in definitiva sul benessere psico-fisico delle persone.